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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: lunedì 19 dicembre 2011, 18:43 
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Ciao Crosshead,
se non ho capito male tu hai lavorato tanti anni proprio nel settore farmaceutico e mi sa tanto che ne capisci qualcosa...
Cambiare tutto per non cambiarte niente, giusto ?
Comunque continuo a sperare in un qualche cambiamento.
Diamo tempo al tempo.
Anche se di tempo ce ne e' rimasto poco...
Saluti
Stefano.


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: martedì 20 dicembre 2011, 12:21 
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bigboy60 ha scritto:
Gia' si vedono le prima avvisaglie di riforma del lavoro; immagino che, per andare a migliorare la situazione dei lavoratori precari si penalizzeranno le condizioni dei lavoratori a tempo indeterminato; così, invece di innalzare verso l' alto la " media ", la si abbassera'; destino dei lavoratori essere "cornuti e mazziati".
A questo proposito, visto che sta diventando l'argomento della settimana, ho cominciato a dare un occhio allo stato dei fatti, giusto per sapere di cosa si parla.
Partiamo dal "famigerato" articolo in questione dello statuto dei lavoratori:

ART. 18. - Reintegrazione nel posto di lavoro.(*)

Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.

Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.

Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.

La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.

Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.

L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.

Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.


In pratica a quanto leggo, questo articolo sancisce l'obbligo di reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa e solo per le aziende con più di 15 dipendenti.
Premesso che non ho ancora gli elementi per prendere una posizione a riguardo, a prima vista la domanda che mi sorge spontanea è: ma è veramente questo l'oggetto del contendere?
Questo è un articolo che si applica più o meno al 10% delle imprese italiane, visto che il rimanente 90% sono di piccole o piccolissime dimensioni. Ha senso mettere in piedi le barricate per una cosa del genere?
E invece a quanto pare per le imprese questo articolo sembra praticamente l'unica ragione per cui le aziende italiane non crescono, dall'altra parte invece per i sindacati è l'ultimo baluardo di difesa per i diritti dei lavoratori.
Per me da entrambe le parti si stanno cercando delle forzature abbastanza evidenti:
- le aziende danno la colpa del loro "nanismo" ai lavoratori, quando anche allo stato attuale ci sono decine e decine di modi per "assumere" lavoratori precari senza farli risultare dipendenti (vedi le partite iva ad esempio) e comunque queste imprese restano sempre piccole.
- i sindacati sventolano questo articolo come un vessillo a difesa dei loro iscritti, ben sapendo però che la gran parte degli under-35 (guardacaso nella stragrande maggioranza non iscritti al sindacato), essendo precaria non è coperta dalle tutele di questo articolo.
Insomma, a prima vista l'impressione che ho è quella che le aziende stiano cercando l'ennesima scorciatoia per vivacchiare delegando ad altri il rischio d'impresa e che dall'altra parte i sindacati si stiano mettendo sulle barricate per difendere i diritti di persone gia iper-protette e che spesso e volentieri (soprattutto nel pubblico) abusano di queste difese per produrre poco o addirittura nulla...
Le domande che mi pongo quindi sono:
- ha senso alzare tutto questo polverone per un articolo che anche modificato non avrebbe praticamente effetto sulla vita economica del Paese?
- è davvero tutta qui la fantomatica "riforma del lavoro" o magari si riuscirà anche a pensare a chi da questo articolo al momento è escluso e tra le altre cosa "paga" anche per le inefficienze di molti che invece da questo articolo sono coperti?
- che senso ha distinguere tra chi lavora con più o meno di 14 colleghi? Per come la vedo io un lavoratore è un lavoratore, punto. Al massimo si può distinguere tra un lavoratore che fa il suo dovere e uno che passa la giornata a bere il caffè e leggere il giornale...

Ciao,
Lorenzo


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: martedì 20 dicembre 2011, 15:47 
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Infatti, secondo me, è un falso problema. Sarebbe sufficiente dare atto alla proposta di legge di modifica presentata dal senatore Ichino e discuterla. Solo che Ichino è del PD e a sinistra non si vuole sentire parlare di modifiche.
Giancarlo


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: mercoledì 21 dicembre 2011, 7:52 
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Forse sara' anche un falso problema...
Comunque nessuno mi toglie dalla mente che l' attacco di Marchionne ai diritti dei lavoratori ( giusti o sbagliati che siano ) ha aperto la breccia per rivedere le regole del lavoro dipendente.
Dati i tempi grami non credo che qualunque modifica possa dare un qualsivoglia vantaggio.
In ogni caso la situazione dei lavoratori precari, parasubordinati, cococo, cocopro, e via cantando, non e' piu' minimamente tollerabile, in quanto sta creando squilibri sociali peantissimi.
La "flessibilita'" tanto decantata non significa necessariamente precarieta'.
Saluti
Stefano.
P.S.: io sull' argomento sono molto sensibile, in quanto ho 51 anni ed una figlia di 26, che finira' gli studi universitari tra un paio di mesi...


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: mercoledì 21 dicembre 2011, 15:01 
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bigboy60 ha scritto:
Forse sara' anche un falso problema...
Saluti
Stefano.
P.S.: io sull' argomento sono molto sensibile, in quanto ho 51 anni ed una figlia di 26, che finira' gli studi universitari tra un paio di mesi...



Stefano, cosiderati fortunato perchè capita anche questo:

Condannato a mantenere la figlia "bambocciona"
A 32 anni la donna si è rivolta al giudice per avere gli alimenti

Deve pagare gli alimenti alla figlia 32enne. Lo ha deciso il Tribunale di Bergamo, che ha condannato un artigiano trentino di sessant’anni a pagare 12mila euro, compresi gli arretrati, per il sostentamento della figlia che ancora non lavora. La donna è una studentessa iscritta alla facoltà di Filosofia, fuoricorso da otto anni .

Il padre per spingerla a laurearsi aveva smesso di passarle gli alimenti, circa tre anni fa, quando la figlia aveva 29 anni. La sentenza di divorzio gli imponeva di pagare «fino a quando la figlia non sarebbe diventata autosufficiente» e, secondo l’uomo, era giunto per la ragazza il momento di “spiccare il volo”.

Non era della stessa idea la diretta interessata che, non contenta e assolutamente non intenzionata a concludere gli studi, si è rivolta al giudice, ottenendo ragione. La donna quindi può continuare a prendersela comoda.


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: mercoledì 21 dicembre 2011, 22:03 
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Da quel punto di vista sono un uomo fortunato: mia figlia e' una brava studentessa ... e non solo quello.
Finira' gli studi con un po' di ritardo, ma ragionevole e motivato.
Spero che sia fortunata anche lei ... a trovare da lavorare.
Ho i miei dubbi, pero', perche' non so cosa sia in grado di offrire questo nostro squinternato paese ad una giovane biologa.
Mia figlia parla gia' di Londra e di Stoccolma...
Saluti
Stefano.


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: mercoledì 21 dicembre 2011, 22:58 
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Località: emilia romagna
Leggendo un'articolo del giornalista Massimo Gramellini apparso sulla "La Stampa" di giovedì 8 Dicembre 2011 riguardo la manovra Monti, il giornalista a fine articolo ha preso in prestito questo ipse dixit di Ettore Petrolini per riassumere la manovra Monti.
"Bisogna prender il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti"


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 Oggetto del messaggio: Re: A chi rimane in mano il cerino?
MessaggioInviato: mercoledì 21 dicembre 2011, 23:00 
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Verita' sacrosanta !
:evil: :evil: :evil:


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